Eccolo! Finalmente
si mostra in tutta la sua bellezza, dietro una curva, quando ancora mancano
cinque chilometri e cinquecento metri dislivello alla vetta. I più duri. E’ il
Passo Manghen, e quello che vedo è tra l’affascinante e l’inquietante: cielo plumbeo, verde della montagna cupo e umido, e la
strada che si inerpica a tornanti per il pendio, non si vede la fine, posso
solo osservare i colleghi che salgono lentamente. Ero mentalmente preparato a
questi ultimi chilometri duri, a quello che non ero pronto era alla giornata no.
E non è per le
oltre quattro ore di pioggia, che sicuramente ha peggiorato la situazione. Sin
dalle prime pedalate della salita precedente, Cima Campo, la strumentazione di
bordo ha rilevato delle anomalie al sistema, cuore e gambe, sotto la norma. Di
fatto da circa quattro ore lotto più con me stesso che con la strada, la salita
e i colleghi. Il semplice atto di bere dalla borraccia mi manda in
affanno. Sono preoccupato, e l’esperienza mi insegna che sarà una giornata
interminabile.
Nonostante ciò,
dopo la prima ascesa e discesa, in queste condizioni la discesa è più difficile
della salita, resisto alla tentazione di girare per il Medio. La voglia di fare
il Manghen è più forte della crisi.
Ovviamente gli
oltre venti chilometri del Manghen mi presentano un conto salato, proprio qui, proprio
negli ultimi affascinanti cinque chilometri, dove, in condizioni normali,
sarebbe stato come entrare nel paese dei balocchi. Oggi invece devo fare i
conti con la fatica, il freddo, i dolori ovunque e un ginocchio destro che improvvisamente
decide di lamentarsi. Insomma, non sono
neanche a metà del percorso, vedo quasi tutto nero, e pensieri funesti di
abbandonare la “corsa” affollano la mente, anche perché a breve c’è un’altra
difficile discesa da affrontare.
Sulla vetta,
trovo Roby, un mio compagno. “Mi ritiro” dice. Lo guardo inebetito, vorrei
dirgli qualcosa per fargli cambiare idea, ma l’unica cosa che mi esce, è “provo
a scendere”. In pratica scappo per paura di rendere reali quei pensieri maligni
fatti nell’ultima mezz’ora. Mi spiace davvero molto.
La discesa del
Manghen, è una sottile lingua d’asfalto resa ancora più nera dall’abbondante
acqua che gli scivola sopra, e sembra portare direttamente all’inferno. Sembra.
Come spesso accade bisogna diffidare delle apparenze. Infatti, il premio per
essere arrivati a fondovalle è assenza di precipitazioni, una strada asciutta
ed una temperatura più mite. Finalmente dopo oltre cinque ore acqua e freddo, un po’ di tregua.
Il blackout
continua, non tengo una ruota, gruppi che vanno a trent’allora sembra che volano
a cinquanta, e la prima metà del Rolle è ancora sofferenza. Qui c’è un ristoro,
e mi fermo, alla ricerca di the caldo. Nel frattempo passa Ale, che mi saluta, ma
il mio tempo di reazione è quello di un bradipo, e ora che faccio tutti i
collegamenti mentali, è già sparito. Il vederlo passare diventa un bell’incentivo
a ripartire velocemente e cercare di riprenderlo. Cosa che incredibilmente mi
riesce dopo qualche km. Poco importa se è lui che ha rallentato o io che, forse, sto iniziando
ad uscire dalla crisi.
Finiamo il Rolle
insieme. Ale ha trovato le parole giuste per distrarmi e farmi tornare
velocemente in uno stato mentale totalmente positivo e sul passo sorrido per la
prima volta da quando sono partito. Sembra un semplice sorriso, ma è una scossa
di energia positiva che sento scorrere per tutto il corpo. Mi rendo altresi conte che ormai il più è fatto il meteo continua essere favorevole e mi posso
godere i successivi quaranta chilometri di discesa.
Ci siamo. Il
Croce d’Aune, l’ultima fatica di giornata. Sono ancora con Ale. Appena attacca
la salita, mi dice “Vai pure, non sentirti in colpa. “Ma va! Dove vuoi che vada…”
rispondo. Un paio di pedalate e mi rendo conto che qualcosa è cambiato. “Ale?...” e lui mi urla qualcosa che non si può dire.
Vado. Cuore e Gambe sembrano improvvisamente tornati ad un livello accettabile,
mi permettono di liberare la soddisfazione per essere giunto sin li dopo ore di
fatiche. La fatica la sento eccome, solo che è una fatica diversa, ora.
Scollino sotto un diluvio, ormai sono diventato insensibile al’acqua.
Finalmente, dopo
nove ore, entro in una città transennata stile giro d’itala, attraverso
l’antico arco, e mi ritrovo davanti l’arrivo più bello delle GF Italiane che ho
fatto sinora. Quella rampa in ciotolato rosso, che porta alla piazza principale
del paese. La rampa che cancella tutte le fatiche, la rampa che porta
all’arrivo. E me la godo tutta quella rampa.
Giornata dura,
durissima, per tutti, indipendente dal percorso affrontato e dal grado di
allenamento. L’acqua e il freddo hanno notevolmente inasprito un percorso già
duro di suo: duecentocinque chilometri e quasi cinquemila metri di dislivello
non sono una passeggiata in condizioni normali.
Oggi ci voleva
coraggio a partire. Oggi ci voleva testa per arrivare.
Soddisfatto di
aver tenuto testa ad una giornata davvero dura.
E’ un po’ come
aver vinto.
Nessun commento:
Posta un commento